martedì 6 novembre 2012

"Problemi di manutenzione ordinaria"

Fonte: www.flickr.com


Il 46 fermava davanti alla Chiesa Nuova. Scesa dall’autobus attraversavo Corso Vittorio e imboccavo Vicolo Sforza Cesarini. Se non c’era zia Elia da salutare proseguivo per Piazza dell’Orologio e da lì, passando per Via degli Orsini, di fronte a Palazzo Taverna svoltavo a destra per Via di Monte Giordano. A quel punto acceleravo il passo perché mancava pochissimo all’arrivo. Ad ogni civico una bottega. Il fabbro mi riconosceva per primo: “A piccolé… ‘ndo’ vai? Da papà? Ce sta, ce sta, senti come canta…”. Che fosse “Un dì all’azzurro spazio” oppure “Nessun dorma” o quello che gli andasse in quel momento, prendeva corpo dall’interno del palazzo di fronte alla salita del Montonaccio e risuonava fino a Piazza del Fico. Non potevi non essere orgogliosa di cotanto genitore. Finalmente arrivavo quasi di corsa al negozio, lui lo chiamava “il laboratorio”, e mi precipitavo a salutarlo e abbracciarlo forte. Qualche volta mi toccava aspettare l’acuto finale: “L’ho provato e riprovato tutto il giorno. Senti come fa…” mi sussurrava.
Mio padre era la colonna portante della mia vita. Una colonna dorica, però. Non amava i fronzoli. Nella sua tomba mia madre ha deposto un ramo di albero di fico, un tralcio di vite e un pezzo di legno. Era un ebanista raffinato, ricercato da antiquari, architetti e privati facoltosi, ma si divertiva a presentarsi: “Piacere, Vittorio. Faccio il falegname povero”. Io ero la prima dei suoi quattro pinocchi. Forse la più amata. Probabilmente la preferita. Credo perché, a differenza degli altri che lo hanno fatto molto prima di me, io ho trovato la forza di allontanarmi da lui soltanto quando ho saputo di aspettare un figlio. Avevo quarant’anni, ero sempre vissuta in casa con i miei genitori e da sette anni assistevo sconsolata al suo declino a causa dell’Alzheimer.
I portelloni delle finestre cedono uno dopo l’altro. Le cerniere arrugginiscono, cominciano a forzare, poi si bloccano e al primo colpo di vento, in genere alle raffiche di settembre quando le prime piogge raffrescano l’ultimo caldo estivo, le imposte precipitano a terra con un tonfo sordo. Naturalmente prima c’era mio padre che se ne occupava. Adesso preghiamo nostro fratello, tra i legittimi l’erede supposto più spirituale mentre non potrebbe essergli più diverso, di soccorrere la casa di famiglia nei suoi infiniti acciacchi.
Io per la mia invece ho trovato Giovanni. È un tuttofare di mezza età, di buona volontà, mattiniero, organizzato, lesto. Arriva presto e finisce tardi. E nel frattempo fa un mucchio di cose. Certo, non perfette come mio padre – il confronto non lo potrebbe reggere nessuno – ma senz’altro discrete. Ad osservarlo bene, un po’ me lo ricorda. Stesso fisico asciutto, quell’approccio sorridente al lavoro, con la battuta pronta. E poi canticchia mentre impasta o sega o incolla. Apprezza qualsiasi piatto prepari a pranzo e per questo lo invito volentieri a mangiare con noi. Mi da soddisfazione, proprio come faceva mio padre quando da ragazza sperimentavo in cucina e scherza volentieri col mio Orlando che oggi compie cinque anni.
Se non fosse per il fatto che mi sforzo di non essere credente in generale, potrei pensare che lo spirito di Vittorio-il-falegname-povero si sia calato nel corpo di Giovanni. Siccome non ci riesco, a non essere credente, allora mi ritrovo a immaginare almeno che mio padre da lassù abbia fatto in modo di farmi incontrare un suo alter-ego, uno che mi aiuti a risolvere quelli che sono ormai anche per me angoscianti problemi di manutenzione ordinaria. Continuo a scrutarlo da dietro la finestra, lui mi da le spalle, la maglietta sudata sotto il sole, va avanti e indietro per il giardino.
Non può accorgersi che sto piangendo.

Nessun commento:

Posta un commento

Cosa pensi di questo racconto? Lascia qui il tuo commento: