lunedì 23 ottobre 2017

La tunica


- “Mamma, mi fai compagnia mentre mi addormento?”

- “E dai cucciolo, non ti sarai impressionato perché abbiamo parlato del gioco della balena blu…”
- “Un po’ sì, mamma…”
- “Perché, pensi che qualcuno venga a cercarti e ti costringa a giocare?”
- “Sì”
- “Cucciolo, ascoltami bene: nella vita le situazioni brutte possono essere tante e diverse. Non solo internet, anche la droga, l’alcool, gli amici sbagliati. Sei tu che devi tenertene alla larga perché le cose brutte non ci vengono a cercare, se capitano è perché le abbiamo cercate noi. Capito?”
- “Sì, mamma.”
- “Adesso non ci pensare e dormi, dai. Buonanotte cucciolo.”
- “Buonanotte mammina.”


Carla si era alzata presto la mattina dopo. Dopo un paio di tentativi si era accorta che anche passandoci sopra il ferro caldo la piega della tunica non si fissava perché mancava l’impuntura che doveva tenerla ferma. Aveva lavato l’indumento con molta cura perché era della parrocchia e teneva a riconsegnarlo pulito, profumato e ben stirato. Le comunioni si avvicendavano domenica dopo domenica e c’erano tre giorni di tempo per riportare le tuniche per i bambini del turno successivo. Il turno di suo figlio era stato fissato a metà maggio e il giorno di festa era stato accompagnato da una bella giornata di sole caldo trascorsa in riva al lago con un’affezionata compagnia di amici e familiari. Tutto si era svolto secondo i programmi, non c’era stato alcun contrattempo e restava soltanto quest’ultima incombenza.

Riposta nella busta di nylon la tunica, a cui aveva anche ricucito l’impuntura mancante, mentre con una mano la teneva sollevata per la stampella si avviò uscendo di casa attenta a non sfiorare muri, cancelli, vetture, qualunque cosa potesse lasciare tracce di polvere o grasso. La voleva riportare immacolata e fare la sua bella figura prima di andare in ufficio. Appesa la stampella alla maniglia sopra uno dei finestrini posteriori della sua auto si sedette alla guida e partì. Dopo un paio di chilometri di periferia, mentre rifletteva sul fatto di non aver considerato che il sole toglie il profumo ai panni stesi, e in effetti la tunica era sotto il sole cocente che batteva proprio da quel lato, arrivò all’incrocio e lo superò. Alla fermata dell’autobus notò la donna e ancora sovrappensiero si fermò subito appena la vide sollevare la mano per chiedere un passaggio. La fece salire davanti accanto a lei e ripartì chiedendole dove fosse diretta.


La donna, che prima di sedersi, con gesto deciso e senza domandare, aveva tolto un paio di auricolari poggiati sul sedile e li aveva messi sul cruscotto, riferì un incrocio qualche chilometro più avati. Carla rispose che l’avrebbe accompagnata fino a destinazione perché doveva passare da lì. “Stai andando al lavoro?” – chiese alla donna e questa rispose che sì, stava andando al lavoro quindi, come per sottolineare l’evidenza, aggiunse: “Io lavoro per strada”. Delle calze a rete Carla pensava che la dimensione della maglia fa la donna o la prostituta e in effetti ora osservava che la maglia delle calze della sua ospite era davvero larga. Con lo sguardo aveva seguito le gambe e aveva finalmente notato zeppa e tacco smisurato delle scarpe. Per il resto constatò però che l’abbigliamento era modesto, non appariscente e non c’era niente di ridotto ai minimi termini come spesso si vede per strada. Stentava a crederci: aveva dato un passaggio a una prostituta. Era lì che guidava e aveva seduta accanto una prostituta e realizzò che era una cosa brutta che non aveva cercato e nonostante ciò era capitata. Di colpo si sentiva vulnerabile, al di là della linea ideale di confine, di quel sottile impercettibile diaframma che da sempre separava la realtà delle vite giuste da quella delle vite sbagliate secondo la prospettiva con cui era abituata a filtrare i valori morali.

La donna aveva risposto con accento neutro, né sdolcinato né volgare, con tono semplice e schietto e senza alcuna ostilità così Carla, che non voleva sembrare curiosa – no, il termine esatto era morbosa – però in fondo lo era, alla fine, senza malizia, si decise: “Ti posso chiedere come fai a farlo? Come ci riesci?” ed era sinceramente interessata a capire come, senza il presupposto di un sentimento o dell’attrazione fisica, una donna possa consentire che estranei intimamente anche solo la sfiorino o, peggio ancora, come possa essere lei disposta a sfiorare intimamente degli sconosciuti. La donna rispose che non era stato facile all’inizio – anzi - ma poi si era abituata. Raccontò che aveva lavorato presso un ospedale per vent’anni con una cooperativa di servizi che un paio d’anni prima aveva licenziato tutto il personale. In seguito era stata richiamata, ma non era sufficiente perché era stato per poche ore e troppo saltuarie. Aveva la terza media, nessuna esperienza di lavoro in particolare, sapeva fare solo le pulizie, veniva dall’Albania e non voleva tornarci. “Là ti danno la terra, ma non ti danno i mezzi per sfruttarla. Ti danno la terra, ma non ti danno un trattore, non c’è acqua, devi fare tutto a mano, seminare, raccogliere… alla fine ti ammazzi di lavoro e fai la fame.” In Italia viveva con la sorella e il cognato in una casa che avevano comprato con un mutuo e lei ora non ce la faceva più a pagare la sua parte. La banca aveva già scritto per riprendersi l’immobile, lei aveva provato, aveva fatto domanda dappertutto, ma non era più riuscita a trovare un posto fisso. Alla fine aveva deciso di andare per strada. “Ma non è un lavoro per donne grandi. Ho quarantasette anni. Questo è un lavoro per ragazze giovani.” Si era sfilata i grandi occhiali da sole e l’aveva guardata con occhi piccoli, ravvicinati e in effetti segnati da diverse rughe. Non era bella, i tratti non erano raffinati, ma il viso era pulito, truccato leggermente. Mentre continuava a raccontare dell’Albania le era squillato il telefono e ora parlava con qualcuno di un tale che stava occupandosi di cercarle un lavoro o almeno così pareva le avesse promesso. “Perché davvero io spero di trovare qualcosa presto – stava dicendo - così non ce la faccio a andare avanti. Sì, grazie, grazie. No, non faccio niente. Che posso fare? Non ho soldi. Stasera torno a casa, mangio qualcosa e mi metto a dormire. Sì, grazie. Ci sentiamo domani.”

Chiuso il telefono si era voltata verso Carla. “Oggi è il mio compleanno. Ti rendi conto? È il mio compleanno e lo passo per strada.” Carla era frastornata. Si sentiva la spettatrice di un film. Era senza parole però non estranea, anzi coinvolta, partecipe. Nel frattempo aveva continuato a guidare e era arrivato l’incrocio dove la donna doveva scendere. “Mi puoi lasciare qui, grazie” - e girato l’angolo si fermarono. La donna si preparava ad aprire lo sportello e Carla volle anticiparla prima che se ne andasse: “Come ti chiami?” – le chiese. “Maria”. “Buon compleanno  Maria” – le disse. Maria si girò con un sorriso di simpatia e ringraziò, si strinsero la mano e andò via.

Carla ripartì diretta alla parrocchia. Il caldo si stava facendo torrido e per raffrescare l’aria abbassò un po’ anche i finestrini posteriori. Lo sguardo le andò agli auricolari sul cruscotto. Sporgendosi li prese e li rimise sul sedile poi pensò che arrivata in ufficio avrebbe dovuto lavarsi le mani, ma subito provò vergogna. Si obbligò a rifletterci su e si sentì sollevata quando ammise che lo avrebbe fatto, come era sua abitudine del resto, ma per la solita attenzione all’igiene non di certo per ribrezzo. Accelerò e dallo specchietto retrovisore vide la tunica che dietro sventolava spensieratamente nell’abitacolo, ma non se ne curò più di tanto. Un po’ sgualcita la riconsegnò in sacrestia alle donne incaricate e di spalle mentre se ne andava le veniva da sorridere tra sé e sé.

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